di Simone Cosimini
Testata: WIRED
La modifica al regolamento del Senato presentata da Nannicini (Pd) prevede una piattaforma istituzionale e vincoli precisi: oltre 40mila scatta l’ordine del giorno calendarizzato in aula
Le petizioni sono previste dall’articolo 50 della Costituzione. Ma se fino al 1971 i regolamenti di Camera e Senato garantivano che le richieste arrivate dai cittadini fossero affrontate nelle commissioni, ormai da mezzo secolo, dopo la riforma di quei regolamenti, l’istituto è divenuto di fatto residuale. Arrivano poche centinaia di petizioni l’anno alle Camere, specialmente al Senato, e nessuna di queste gode in realtà di un qualche seguito in una qualche commissione. In Germania le proposte di questo tipo sono invece quaranta volte superiori. Le petizioni si firmano per principio, insomma, ben sapendo che il legislatore non darà loro alcun seguito. Servono al massimo a fare notizia (spesso neanche più quella), stimolare il dibattito e, magari, a sottoporre a qualche parlamentare l’argomento, sperando in una proposta di legge. Hanno smarrito la loro missione originaria.
Qualcosa potrebbe cambiare. In una stagione che vede la possibilità di sottoscrivere le proposte di referendum anche in digitale attraverso il sistema pubblico di identità digitale Spid, la Carta d’identità elettronica e altri sistemi, una proposta di modifica al regolamento di Palazzo Madama, firmata dal senatore Tommaso Nannicini (Partito democratico) e predisposta insieme all’associazione Volare in particolare da Giuseppina D’Auria, avvocato e membro del gruppo democrazia digitale dell’associazione, e Stefano Consonni, coordinatore del gruppo, punta a digitalizzare anche il vecchio e un po’ polveroso strumento della petizione.
Nuova vita alle petizioni
Per anni associato alle richieste, magari rispettabili ma automaticamente senza futuro, di qualche volontario che ci fermava per strada sensibilizzandoci su questa o quella causa. Oppure, grazie a piattaforme come Change.org, traslocate online ma comunque mai istituzionalizzate: le proposte sottoscritte su quel tipo di siti – nel caso di Change, una “b-corp” statunitense – non hanno alcun rapporto diretto con le istituzioni. Quelle piattaforme, al pari del volontario al banchetto, sono solo intermediari che poi, in formato cartaceo o via e-mail, devono recapitare le firme alle Camere. Senza alcuna garanzia che queste calendarizzino la proposta o, a dirla tutta, che almeno verifichino la correttezza formale di quanto presentato. D’altronde non è previsto l’obbligo di esame da parte delle Commissioni né una periodicità fissa per riferire alle Assemblee.
Di nuovo: roba buona per il dibattito, non per produrre conseguenze legislative come invece accade nel Regno Unito, il cui sistema è stato preso a modello per le modifiche proposte. In Gran Bretagna esistono infatti una piattaforma dedicata, una soglia di 10mila firme, una commissione dedicata e un sistema di risposte da parte del governo (al momento segnala che a 544 il governo ha risposto e che 93 sono in discussione alla Camera dei Comuni). Fra il 2017 e il 2019 le petizioni presentate dai cittadini britannici sono state oltre 33mila e hanno coinvolto quasi 17 milioni di firmatari. In Italia, nello stesso periodo, sono state recapitate 1.688 petizioni al Senato e 1.384 alla Camera. Solo che nel primo caso è stato spesso garantito un feedback o addirittura un seguito parlamentare, nel secondo sono rimaste lettera morta.
La proposta di modifica
L’idea della modifica del regolamento illustrata da Nannicini in un evento al Senato consiste invece nel rivedere gli articoli 140 e 141 e nell’introduzione dell’articolo 140-bis. In estrema sintesi: garantire che le petizioni con almeno 20mila firme siano assegnate in modo automatico alla commissione competente e a un relatore (sempre che non ci sia un ddl attinente, in quel caso la proposta verrebbe discussa congiuntamente); che quelle che hanno raccolto fra 20 e 40mila firme, invece, si concludano con una relazione presentata all’Assemblea o una risoluzione, in entrambi i casi entro 90 giorni; infine che quelle oltre 40mila firme siano iscritte d’ufficio all’ordine del giorno dell’Assemblea
Le modifiche puntano insomma a fornire ai cittadini la garanzia che se ne discuterà in aula – senza ovviamente prevedere alcun vincolo sul fatto che quella discussione debba produrre un qualche provvedimento. Tutto questo dopo aver dato l’opportunità ai cittadini di firmare anche attraverso una piattaforma digitale istituzionale dove poter pubblicare, consultare e firmare con Spid o altri strumenti di autenticazione riconosciuti tutte le petizioni: “La creazione di una piattaforma dedicata, semplificando ulteriormente la procedura di presentazione, sarebbe in grado di incentivare l’esercizio del diritto, come è avvenuto per l’Unione europea e alcuni Stati europei, che da anni si avvalgono di un apposito portale internet per la presentazione e la trattazione delle petizioni. La piattaforma è, altresì, idonea a rendere le petizioni presentate consultabili e disponibili per l’adesione di altri cittadini” si legge nella proposta di modifica. Le petizioni resterebbero infatti consultabili e sottoscrivibili per 180 giorni.
Recuperare insomma la centralità dell’istituto della petizione – addirittura previsto già nello Statuto Albertino del 1848 – ispirandosi ai migliori modelli europei, istituzionalizzandolo e dunque sottraendolo alle varie piattaforme private non sempre trasparenti, allineandosi all’”upgrade” dei sistemi di partecipazione politica popolare legata ai quesiti referendari: questi gli obiettivi del progetto. “I cittadini hanno dimostrato di avere un grande bisogno di partecipare – spiega Consonni a Wired Italia – basti pensare che nel 2019 nove milioni di persone hanno utilizzato Change.orgper proporre o firmare proposte e appelli. Questo significa che c’è uno spazio vuoto che il Parlamento deve avere l’opportunità di riconquistare”. Anche perché lo prevede la Costituzione.