Essere giovane
di Giancarlo Pala
“Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto sia: di doman non c’è certezza” iniziava così il componimento poetico di Lorenzo il Magnifico della fine del’400. La fugacità della vita, la sua caducità sono stati spesso raccontati come fenomeni certi e costanti cui non esisteva possibilità di interromperne il corso e allora abbisognava coglierne l’attimo. Son passati secoli, numerosi passi avanti sono stati fatti in campo medico; è migliorato il tenore di vita e la capacità di approvvigionamento delle più svariate risorse; la consapevolezza ambientale è diventata il totem che guiderà l’azione di un numero maggiore di Paesi occidentali per i prossimi decenni a venire; si è assistito, per molto tempo dal dopoguerra in poi, ad un processo dato per inarrestabile di prosperità economica con un allargamento del ceto medio ed il contestuale radicamento del capitalismo economico. Insomma il positivismo si allargava in ogni settore della società.
La crisi del 2008, la pandemia odierna, gli ultimi dati sulle diseguaglianze ci mostrano invece che il velo di Maya è stato squarciato e siamo piombati tutti nel disincanto più assoluto. Sappiamo con certezza che avremo meno possibilità dei nostri padri quando loro, a parti inverse, sapevano che avrebbero vissuto una vita migliore dei loro avi. Il progresso sembra essere oggigiorno imbrigliato su logiche di mercato e non su spinte valoriali per cui, rendere liberi i brevetti dei vaccini, frena gli animi di quei decisori che non riescono più a soppesare le perdite di danaro con le perdite di vite umane che potrebbero essere invece coraggiosamente risparmiate.
La Unione Europea ha lanciato un programma ambizioso volto alle nuove generazioni perché forse, per quelli che come me si trovano a metà strada, non si può fare più di tanto. Il senso stesso delle politiche pubbliche non può che essere orientato verso il medio-lungo periodo. Pazienza. Ci rimboccheremo le maniche per contribuire a costruire un qualcosa di migliore senza perdere tempo nel piangerci addosso. Abbiamo il dovere morale e sociale di farlo. O almeno di provarci.
Pensare ai giovani è oramai diventato un mantra di cui spesso sentiamo parlare come ad evocare una attenzione immaginifica verso il futuro. Viene utilizzata questa formula per poter trasmettere in maniera quasi catartica, alle nuove generazioni, il prospetto di un mondo migliore rispetto a quello attuale. Parole pronunciate da coloro i quali ci hanno temporalmente preceduti nel passaggio dalla fase della giovinezza alla adultità, spezzando quel cordone ombelicale che li teneva subordinati alla esistenza e alle scelte prese da altri. Ma chi sono costoro, i giovani? Non è una domanda banale e dare una risposta significa innanzitutto distinguerli da ciò che essi non sono ossia adulti.
Se ci dovessimo chiedere cosa segni il passaggio tra queste due fasi della vita, la risposta sarebbe l’indipendenza. Indipendenza materiale e immateriale che permette di realizzare a pieno lo sviluppo della persona umana. Già, persona umana, perché la indipendenza è un fenomeno che riguarda dapprima la sfera individuale e solo poi attiene ad una dinamica allargata, sociale. Nell’articolo 3 della nostra Costituzione essa è legata a fattori quali la dignità, la libertà e la uguaglianza tra i cittadini anche se, come nella legge dei vasi comunicanti, essa esonda al di fuori del concetto di cittadinanza e assurge il ruolo di diritto naturale, universale e inalienabile di ognuno.
Dopo avere individuato il perimetro dei soggetti della riflessione c’è da interrogarsi su quali siano i fattori reali che conducono alla piena libertà ed autonomia dell’individuo. Certamente, se per legge i gradi di libertà aumentano col passaggio del tempo, ad esempio a 16 e 18 anni si acquistano nuovi diritti, a 25 anni la capacità di scegliere i membri della camera Alta del Parlamento e così via; nei fatti, nella vita di tutti i giorni il grado di autonomia è dato dalla istruzione che permette la piena coscienza di sé e dalla stabilità lavorativa che corrisponde al primo vero tentativo di progettare il proprio futuro.
Centrali sono le Istituzioni scolastiche ed il mondo del lavoro. La parola mondo è azzeccata perché è un tutto caotico di norme e sotterfugi che alimenta più la instabilità che non la semplificazione dell’esistente. Ma andiamo con ordine.
Reputo profondamente sbagliata la logica che è stata alla base della alternanza scuola-lavoro. La scuola deve produrre studenti-cittadini e non studenti-lavoratori. Non possiamo essere considerati funzionali al sistema di produzione. Noi del sistema facciamo parte, contribuiamo a crearlo e a sostenerlo e, possiamo anche decidere di sostituirlo quando presenta più storture che benefici. Non possiamo venire educati ad esserne succubi. Chiaramente, non si sta qui a parlare degli Istituiti professionali che hanno la loro ragione di esistenza nell’apprendimento di un sapere tecnico. È un discorso che si rivolge in senso lato alla concezione della scuola come Istituzione fondamentale per la nostra vita sia personale sia collettiva.
Analizzando i dati sull’illetteratismo (quello che viene più comunemente chiamato “analfabetismo funzionale”) forniti dall’indagine Piacc-Osce relativa al 2019, la percentuale italiana arriva al 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni in crescita rispetto al 27,9% del 2016 dimostrando in tal senso come questo fenomeno non sia stato invertito. È un problema serio che concerne lo sviluppo critico di ciò che si legge, di ciò che si è e delle aspettative che infine vengono create. La stessa qualità democratica si fonda sulla capacità di discernimento, critica e discussione costante. Non si può sperare di essere indipendenti se non si riesce a distinguere il reale dalla propaganda.
Il lavoro è il secondo perno centrale dell’autodeterminazione individuale che affianca al Cartesiano “penso dunque sono” il più moderno “consumo dunque esisto” legato quasi interamente al mondo della produzione.
Si parla sovente di giungla normativa un nome esotico che per quanto possa intuitivamente affascinare cela qualcosa di intrinsecamente negativo, un groviglio di vegetazione dove è facile restare avviluppati.
I contratti a tempo indeterminato rappresentano sempre più una chimera, i determinati sono diventati la regola; gli apprendistati che facevano assumere alla impresa la responsabilità di formare il lavoratore ed includerlo a pieno titolo nel sistema produttivo sono stati sostituiti dai tirocini senza i più elementari diritti e, di frequente, senza stipendio (solo qualche rimborso spese quasi a volersi beffare del lavoratore). È sbagliato il messaggio di fondo che fa pesare al malcapitato la gentile concessione di una assunzione trimestrale senza ferie, né malattia, né maternità né indennità di disoccupazione. Come se il pretendere la dignità lavorativa fosse oramai una questione anacronistica. Lavorare è oggigiorno una fortuna, una concessione. Se non ti piace, viene detto, puoi cercare qualcosa di meglio. Le gare al massimo ribasso però conducono alla vittoria degli appalti che limano i costi sulla (presunta) maggiore spesa, i salari. Si invera perciò il detto che al peggio non c’è mai fine. Basta tutto questo? Chiaro che no! Non si è solo sottopagati, non solo si sono ridotte le tutele viste come inutili dispendi di risorse, ora devi pure essere sottoposto ad una formazione costante (se te la paghi da solo, tanto meglio!). Ci dicono è finito il tempo casa, scuola, lavoro. Inizia l’avventuroso casa-lavoretto-casa-lavoretto-formazione-inattività-lavoretto-casa dove l’abitazione è sempre quella di origine non quella di arrivo. Perché la famiglia è importante, la famiglia aiuta. Già la famiglia che ha avuto una stabilità, anche in molti casi contributiva. E noi? Quale famiglia potremmo mai essere se non cambiamo questo sistema anziché tentare di giustificarlo?
Certo non posso aspettarmi che le destre levino gli scudi e si facciano portatrici dei diritti dei lavoratori ma, i progressisti di sinistra? Pare abbiano terminato il fiato nella difesa di un vetusto statuto dei lavoratori che non rappresentava più nessuno. Dopo aver alzato la voce, e averlo smantellato, hanno deciso che il loro ruolo era terminato. Silenzio. Anzi si rilancia: lo statuto forse non tutelava nessuno ma il mondo è cambiato. Nessuna pretesa che venisse inglobato un nuovo contenitore veramente inclusivo che andasse a ridare dignità a tutti i precari che rappresentano la maggioranza. Da quelli iper-tutelati sino agli invisibili, ai braccianti, ai sex workers, ai giovani, ai riders, alle partite IVA. Semplicemente si pretende che ci si adatti magari compiacenti.
C’è bisogno a mio dire, per quanto possa ancora valere la parola di un ventinovenne, di nuovi diritti sociali non solo per gli uomini in quanto tali con le loro esigenze primarie e soggettive (da tutelare e rinforzare con maggiore vigore) ma anche di crearne di nuovi per i lavoratori, i consumatori ed i produttori.
Identificando chiari diritti e chiari doveri che non lascino spazio di manovra ai vari tiranni del profitto o, viceversa, che non si tramutino in forme di salvaguardia del parassitismo e del familismo amorale di cui siamo affetti. Pensare alle generazioni future significa pensare al singolo in piena autonomia e armonia all’interno di una Comunità più ampia dove ognuno ha diritto di reclamare il proprio grado di dignità. In maniera armonica e organica perché o si va avanti tutti senza lasciare nessuno indietro oppure si crea un qualcosa che non è più democrazia. Un posto dove solo ai pochi è consentito di sviluppare la persona umana mentre agli altri viene riconosciuto un sostanziale grado di inumanità.
Non siamo certo riusciti ad abolire la povertà con un decreto ma possiamo ridurre i gap educativi e ridurre al minimo il lavoro precario, l’incertezza esistenziale, con la volontà politica di intraprendere una serie di nuove e organiche riforme che modifichino radicalmente il solco in cui siamo incanalati garantendo altresì nuovi diritti che anche solo tendano a realizzare il passaggio alla indipendenza, alla realizzazione di sé, alla felicità di ognuno.