Rinuncia alla genitorialità
di Emanuela Mastropietro
Se le culle restano vuote: l’Italia a picco (Repubblica, 2019); Siamo il paese delle culle vuote: il saldo peggiore degli ultimi cento anni (La Stampa, 2020); Culle vuote: Italia maglia nera per la natalità (IlSole24ore, 2019); ISTAT. Record negativo di nascite (Corriere della Sera, 2020).
Da diversi anni ormai siamo abituati a leggere questi titoli. Siamo talmente abituati che neanche ci chiediamo più che cosa significa tutto questo. Sappiamo, perché ce lo dicono i giornali periodicamente, che l’invecchiamento della popolazione ha gravi ripercussioni economiche, sociali, sanitarie e di sostenibilità del nostro prezioso sistema di welfare. Raramente però ci chiediamo quali sono le implicazioni personali e umane di questo drammatico fenomeno. Perché non si tratta di un fenomeno “voluto”. Le culle che “mancano” rappresentano il desiderio di genitorialità che non è stato possibile soddisfare e che non potrà che lasciare un grande vuoto negli uomini e nelle donne che quelle culle volevano riempire.
Lo spunto per queste riflessioni mi viene fornito da uno studio pubblicato lo scorso anno che indaga sullo scarto tra i figli desiderati e i figli avuti in Europa e negli USA (E. Beaujouan, C. Berghammer, The Gap Between Lifetime Fertility Intentions and Completed Fertility in Europe and the United States: A Cohort Approach, 2019).
Non è il primo studio che analizza questo fenomeno, ma dal punto di vista metodologico questa analisi rappresenta una assoluta novità perché utilizza un approccio di “coorte”. Fa riferimento, infatti, alla stessa coorte generazionale per confrontare le intenzioni espresse in giovane età sul numero di figli desiderati e gli effettivi tassi di fertilità registrati in età matura. In particolare, lo studio ha preso in considerazione donne di età compresa tra 20 e 25 anni, nate negli anni 1970-1975, comparandoli con i tassi di fertilità registrati a 40 anni delle stesse coorti generazionali.
Il confronto viene sintetizzato in 2 indicatori. Fertility gap che misura lo scarto tra i figli che le donne in giovane età dichiaravano volere e i figli effettivamente nati. Un indice positivo significa segnala una mancata realizzazione dei desideri di genitorialità.
Il secondo indicatore, Excess childlessness, misura lo scarto tra la quota di donne che in età giovanile hanno dichiarato di non volere figli e la quota di donne della stessa coorte che poi non ha avuto figli. Anche in questo caso un valore positivo segnala un numero di donne mature senza figli superiore rispetto a quante in età giovanile avevano dichiarato di non voler diventare madri.
In tutti i paesi europei i due indicatori sono positivi. Ciò significa che esiste un fenomeno generalizzato in Europa di rinuncia al desiderio di genitorialità, e in Italia tale rinuncia è ancor più forte. Le ventenni italiane intorno alla metà degli anni ’90 esprimevano il desiderio di avere 2 figli, alcune anche di più, ma la stragrande maggioranza ne ha avuto solo 1. Il Fertility gap, infatti, è pari a circa -0.7, tra i più bassi in Europa (seguito solo da Grecia e Spagna).
Anche l’altro indicatore, Excess childlessnes è positivo in tutta Europa, e in questo caso l’Itala fa registrare il valore più alto, pari a oltre il 20%. Ciò significa che di 100 ventenni che a metà degli anni ’90 avevano dichiarato di non volere figli, dopo 20 anni se ne contano oltre 120 che non ne hanno avuti.
I fattori che incidono sulla mancata realizzazione del desiderio di genitorialità sono tre: le condizioni economiche, le difficoltà di conciliazione vita-lavoro, le gravidanze indesiderate, ovvero la diffusione di sistemi di contraccezione che consentono di controllare le nascite.
Da notare che i due indicatori presentano valori ancore più alti in corrispondenza di titoli di studio più elevati. Le donne laureate o con titoli di studio di livello superiore pagano un prezzo ancora più alto in termini di rinuncia al desiderio di genitorialità. Tra queste donne l’Excess childlessnes arriva a 25%! Oltre 10 punti percentuali superiori alle donne con livelli di qualificazione bassi e medi.
Ciò che condiziona maggiormente la rinuncia alla maternità/genitorialità per queste donne è il fattore “conciliazione vita-lavoro”, proprio perché esse sono maggiormente motivate a realizzarsi professionalmente e pur esprimendo un desiderio di famiglia e di genitorialità non riescono a realizzarlo per la difficoltà a combinare “il tutto”, rimandando prima e rinunciando poi alla maternità.
Sarebbe interessante, a questo proposito, continuare ad indagare questi aspetti includendo anche le intenzioni/aspirazioni e le realizzazioni degli uomini. Va detto infatti, che tra i fattori che incidono sulle difficoltà di conciliazione vita-lavoro c’è anche l’iniqua condivisione delle responsabilità delle cure tra partner. Non è un caso, infatti che i paesi Europei che fanno registrare un minore scarto del fertility gap e del excess childlessness presentano anche una maggiore equità nell’uso del tempo tra lavoro retribuito e lavoro di cura tra partner. Laddove entrambi i partner si dedicano (pressoché) in egual misura al lavoro e agli impegni di cura è più probabile che il desiderio di genitorialità riesca ad essere realizzato. L’equità nell’uso del tempo costituisce anche un fattore critico anche nella realizzazione del desiderio di genitorialità.
Uno Stato che intende prendersi cura dei propri cittadini e delle proprie cittadine non può essere indifferente al mancato raggiungimento di un desiderio di così grande valore.L’auspicio è che si trovi il coraggio di destinare risorse economiche adeguate per misure che rendano agili le modalità e flessibili gli orari di lavoro, sostengano le imprese in queste innovazioni, supportino entrambi i genitori con congedi di equa entità, adeguata remunerazione, e con servizi di cura diffusi, integrati e flessibili. E su questa strada, alimentare la crescita del nostro paese e, non meno importante, sostenere la realizzazione dei desideri, delle aspirazioni professionali, famigliari e personali dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze.