Evergreen
di Luca Bergamaschi
Il punto di partenza non è dei più confortanti dopo anni di declino degli investimenti e perdita di competitività nelle tecnologie chiave del futuro green. La crescita delle energie rinnovabili, in particolare il solare, è ferma dal 2014 per la scelta politica dei successivi Governi di supportare l’espansione del gas fossile nonostante numerosi studi dei più rinomati centri di analisi e di ricerca italiani ed europei, come il rapporto della serie Energy Union Choices, quello di REF-E, quello di RAP e quello del Politecnico di Milano, hanno fornito un’abbondante evidenza che mostra che l’uscita del carbone in Italia al 2025 è sicura e fattibile senza costi aggiuntivi e senza l’installazione di nuovi impianti a gas. La questione non è economica o di sicurezza energetica ma di influenza che l’industria del gas esercita su quasi tutto lo spettro politico e istituzionale del paese.
Ad aggravare la situazione, l’attuale Piano Clima Energia risulta disallineato ai nuovi obiettivi europei al 2030 e di conseguenza dagli obiettivi dell’Accordo di Parigi (e dall’impegno del Governo di raggiungere la neutralità climatica) e disproporzionatamene a favore del gas fossile: il risultato è che l’Italia risulta essere il paese europeo che sta pianificando la più alta produzione di elettricità da gas fossile nei prossimi 10 anni. Senza un cambio di rotta, entro il 2030 l’Italia sarà responsabile di circa il 10% delle emissioni del settore energetico dell’UE a 27 e sarà il terzo più grande emettitore di questo settore.
L’Italia è inoltre il fanalino di coda in tutti i principali indicatori relativi al commercio internazionale di prodotti low-carbon sviluppati dall’ENEA, con un disavanzo in crescita di circa 600 milioni di euro per il 2019. In alcune tecnologie strategiche, come quello delle batterie e della produzione di auto elettriche, siamo gli ultimi della classe importando quasi tutto il fabbisogno. Come spiega ENEA “la quasi totalità del disavanzo è riconducibile al comparto della mobilità verde (veicoli elettrici, veicoli ibridi e batterie agli ioni di litio, queste ultime ancora una rilevante voce di costo nella fabbricazione dei primi). I paesi dai quali l’Italia importa questo tipo di prodotti sono sostanzialmente i leader del commercio internazionale, come Cina, Germania, Regno Unito, Corea, Francia, Giappone con l’aggiunta di Paesi dell’Unione Europea come Paesi Bassi, Belgio, Polonia e Austria, spesso beneficiari di investimenti diretti in entrata da parte dei principali costruttori mondiali.”
Inoltre secondo l’indice di spesa verde sviluppato da Vivideconomics per monitorare la spesa durante e post COVID, l’Italia è tra i paesi con un indice negativo a differenza di Germania, Francia, UK, Spagna e Unione Europea. Ciò è in gran parte dovuto agli impatti negativi di aiuti a settori ad alta intensità ambientale senza però condizionalità per intraprendere azioni compatibili con la sostenibilità ambientale. A differenze dei partner europei, i pacchetti di salvataggio di Alitalia e FCA non sono stati legati ad alcuna condizionalità ambientale in settori in cui invece vi è disperato bisogno di piani industriali “verdi” che ripristino la competitività dell’industria. Come hanno rilevato i ricercatori della Banca d’Italia sulla base dei dati dell’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana, “risulta ancora molto basso il coinvolgimento delle aziende della filiera in progetti di sviluppo nel campo dei nuovi sistemi powertrain connessi con l’elettrificazione, delle tecnologie smart, di connettività e di riduzione dell’inquinamento” evidenziando “una situazione di debolezza competitiva su gran parte delle attività innovative”.
Ma c’è speranza. Tutto dipenderà da come spenderemo le ingenti ma pur limitate risorse europee. Senza una scelta chiara sulle tecnologie chiave per la decarbonizzazione, incluso l’idrogeno verde ma non quello blu che è legato allo sfruttamento del gas fossile e di tecnologie di sequestro della CO2 dispendiose e con significativi livelli di rischio malgrado la scelta di Eni di investire in questa tecnologia nel complesso di Ravenna, l’Italia molto probabilmente non riuscirà a colmare il gap di competitività. Se invece dedicherà gran parte degli investimenti alla decarbonizzazione senza greenwashing i vantaggi saranno significativi su più fronti come evidenziato dagli scenari macroeconomici sviluppati dall’economista Pia Saraceno. Nello scenario virtuoso di decarbonizzazione “il tasso di crescita medio annuo si mantiene vicina al 5% per qualche anno per scendere al 3,5% medio e convergere nel lungo termine su livelli vicini al 2%.” Questa traiettoria è l’unica in grado di sostenere la transizione energetica in linea con gli Accordi di Parigi e allo stesso tempo generare le condizioni per il rientro del debito “sufficiente a far rientrare ai livelli pre-Covid” e far ripartire l’occupazione: “il buon utilizzo dei fondi comunitari riporta il PIL al 2030 su un valore del 30% circa superiore a quello in assenza dei finanziamenti comunitari” e “l’aumento dei posti di lavoro porta il tasso di occupazione per la popolazione in età attiva dal 57% del 2020 al 68% nel 2030” con un forte miglioramento delle opportunità per i più giovani e le donne. Con il Recovery Fund non c’è in gioco solo l’immediata ripresa post-COVID ma la traiettoria di crescita, occupazione e sostenibilità del debito e ambientale dei prossimi decenni.