Lasciamo sognare i comuni
di Antonio Rubino, Sindaco di Moliterno (Pz)
Il contesto politico è in una vorticosa e continua evoluzione, caratterizzata da una spiccata volubilità degli elettorati e da modificazioni profonde nei rapporti tra le istituzioni e i cittadini. Uno scenario globale nel quale si inserisce la pandemia da COVID-19.
La crisi pandemica sottolinea in maniera drammatica l’inserimento delle vicende delle piccole comunità nei fenomeni globali e, nello stesso tempo, mette in luce in maniera altrettanto drammatica la crisi del meccanismo della direzionalità tendente, negli ultimi anni, ad esaltare la funzione dei grandi centri come unici incubatori di futuro, scartando le periferie.
Abbiamo scoperto che non esiste un modo per prevedere tutto. Così le nostre stime sul PIL vanno in fumo in un batter d’occhio con un virus che arriva dalla Cina. È in questa prospettiva che la nostra azione, da auspicare corale e coinvolgente, deve essere in grado di portare una visione d’insieme nella quale difficili e complesse azioni non partono da un nuovo localismo ma dalla capacità di inserire il localismo nelle grandi politiche di sviluppo di sistema.
Sembra una sfida impossibile, in realtà è “la sfida” che abbiamo davanti. Alzare lo sguardo verso il periodo post-covid, amministrando una comunità delle aree interne della Basilicata, significa armarsi del coraggio del sogno, dell’ambizione del nuovo e dell’intento riformatore di non promette i grandi stravolgimenti del breve periodo, che spesso si caratterizzano per effimerità, bensì graduali, programmati interventi che hanno la caratteristica della lungimiranza e si nutrono di studio, meticolosità, lavoro, quotidianità.
Occorre investire nelle risorse umane dei nostri territori, partendo da due pilastri: formazione (scuola, tecnica, scambio culturale) democrazia partecipata (possibilità per i cittadini di cooperare, partecipare, incidere).
L’esperienza dell’emergenza sanitaria che, al momento, è totalizzante (per il tempo che gli amministratori devono dedicargli e per l’importanza che riveste sul piano delicato della salute di tutti) deve imporre uno sguardo più lungo. L’obiettivo di questo sguardo deve essere la creazione di nuove e più favorevoli condizioni di contesto nelle aree interne, dove deve aumentare la libertà della scelta tra il restare e il partire.
Tre sono gli strumenti che occorrono e che dobbiamo forgiare in questi anni:
- Servizi di cittadinanza;
- connessioni e miglioramento della mobilità;
- potenziamento dei servizi e dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni.
Tre sono gli assi su cui agire:
- Una nuova visione che superi la “questione meridionale” (di anacronistico c’è solo la definizione), richiede la capacità di ragionare come sistema paese, riconoscendo nel Sud non l’ultimo dei vagoni, ma una parte indispensabile del sistema. Basta politiche di assistenza ma valorizzazione delle risorse in un piano strategico nazionale. Una Italia che è fatta di tante periferie, si tiene insieme se ciascuna di queste periferie valorizza la sua vocazione e inserisce il suo modello di sviluppo in una politica generale che deve avere due scenari principali: l’Europa e il Mediterraneo.
- L’eccellenza metropolitana con la crisi del Covid ha fatto emergere con dolore (e speriamo non anche con la rabbia cieca) le disuguaglianze. L’emergenza sanitaria scava due solchi da riempire: uno è sull’aspetto sanitario, non regge l’idea di presidi sanitari nei grandi centri con lo smantellamento dei presidi territoriali (scopriamo che questo sistema non ha retto allo shock). Il secondo solco da coprire è quello che vede l’Italia dei piccoli comuni, dei piccoli agglomerati, contrapposta all’idea che gli unici incubatori di crescita sono i grandi centri.
- Lo spopolamento delle aree interne è il baratro che il mio paese e tanti altri lungo la dorsale appenninica si trovano davanti. La mia comunità con le sue risorse e le sue caratteristiche deve portare il localismo fuori dal limitante e populistico accanimento terapeutico votato a fermare l’emorragia con le piccole garze di interventi a pioggia e di una industrializzazione distante dalle vocazioni locali.
Le parole d’ordine devono tornare ad essere: relazioni (vale a dire infrastrutture digitali, comunicazioni, sguardo all’Europa); formazione, (scuola, specificità dell’investimento sul capitale umano), opportunità (garantire migliori condizioni per attrarre investimenti e per permettere incubatori di idee, di imprese).
Sembrano lontani e teorici obiettivi, ma una sfida nella sfida sta nel concepire la necessità di una nuova elaborazione del pensiero, e la possibilità concreta di un futuro passa dall’inversione delle teorie e dal cambio di pensiero: non si abbia l’ansia di un nuovo capitalismo ma di un nuovo umanesimo frutto di un nuovo ragionamento. Le piccole comunità, le aree interne del nostro paese, hanno in questi obiettivi l’unica opportunità di concretezza, quella di ridare opportunità di lavoro ai giovani partendo da loro e dalle loro idee, fornire migliori servizi e maggiore qualità della vita e un equo diritto di sognare. Perché il diritto di sognare non è il diritto all’illusione, ma di avere una quota parte di merito nel costruire una comunità più giusta, è il diritto alla felicità che non può essere riservato solo a una minoranza e deve essere negato a chi vive a “sei chilometri di curve dalla vita”, o nelle periferie di una città.
Sulla base di questo pensiero possiamo costruire una nuova azione politica che parte dai piccoli centri, che ha in se l’antidoto ai populismi, in quanto abbatte l’idea malsana dell’esistenza di uno scontro tra popolo ed elitè, ma mette al centro la solidarietà, il lavoro, il merito, la competenza e “l’attesa della povera gente”.