Lo stesso tempo
di Emanuela Mastropietro
Claudia Goldin l’ha chiamata la rivoluzione silenziosa. Si riferiva alla crescita dei tassi di istruzione delle donne, che è stato uno dei fenomeni sociali più straordinari dal dopoguerra ad oggi. L’accesso all’educazione delle donne ha costituito ovunque nel mondo la chiave per «emanciparsi» e per migliorare le condizioni di vita e di salute dei figli e della famiglia.
Anche in Italia il fenomeno ha avuto una dinamica eccezionale. Negli anni ’50 le donne recuperano pienamente il divario con gli uomini nell’istruzione elementare, negli anni ‘80 quello delle scuole superiori, e dagli anni ’90 la crescita nella formazione universitaria accelera vistosamente. Nel 1995 solo il 2% delle giovani donne tra i 19-21 anni erano iscritte all’università, nel 2012 diventano il 47%, quasi una su due. Ormai le donne hanno consolidato il cosiddetto “sorpasso” nei titoli di studio: la loro performance misurata sia in termini di età alla laurea, di punteggio agli esami e voto di laurea è migliore di quella maschile. Non meno importante, l’aumento della scolarizzazione femminile ha riguardato tutte le classi sociali.
La maggior qualificazione delle donne apre la strada ad un massiccio ingresso nel mercato del lavoro.
La strepitosa crescita nei livelli di istruzione e di formazione ha spesso accompagnato un massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro a livello mondiale e soprattutto nei paesi europei e OCDE. Uno dei casi più eclatanti è la Norvegia in cui il tasso di occupazione femminile passa dal 26,1% del 1960 al 73,4% del 2000. In Italia invece le cose sono andate diversamente. Benché nel 1960 il tasso di occupazione femminile fosse leggermente più alto di quello norvegese (28%), nel 2000 non aveva ancora raggiunto il 40%. L’Italia, dopo la Grecia, è il paese dell’Unione Europea che registra il tasso di occupazione femminile più basso (il 53%, nel 2018; EUROSTAT). La situazione nel nostro paese è aggravata anche da un forte divario territoriale: mentre le regioni del nord presentano livelli di occupazione femminile in linea con le medie europee, intorno al 62-63%, nelle regioni del sud la quota di donne occupate si dimezza, registrando valori intorno al 30% (SVIMEZ, 2019).
TASSO DI OCCUPAZIONE FEMMINILE NEI PRINCIPALI PAESI EUROPEI, 2018
(fonte: Eurostat)
Sono passati poco più di 20 anni da quando Kathy Matsui pubblicò Women-omics. Buy the Female Economy (1999) che l’ha resa famosa per aver proposto una nuova politica economica per il Giappone da anni in recessione. Matsui prevedeva che se il tasso di occupazione femminile fosse aumentato di 9 punti percentuali (passando dal 50 al 59%) il PIL reale sarebbe aumentato di 0,3 punti percentuali all’anno per un decennio. Da allora le teorie della womenomics si sono diffuse nel mondo. Promuovere l’occupazione femminile non è più considerato un atto di giustizia sociale, ma una vera e propria strategia di politica economica per liberare risorse e talenti a beneficio della crescita e dello sviluppo di un paese. Nel 2019 il Giappone ha fatto registrare livelli di partecipazione femminile al lavoro superi al 70% con una forte crescita proprio in seguito al programma di interventi tesi a rafforzare la presenza delle donne al lavoro. La relazione tra crescita economica e partecipazione delle donne al lavoro è ormai un fatto innegabile e non solo per il Giappone. La Banca d’Italia ha stimato qualche anno fa che se si raggiungesse il 60% del tasso di occupazione femminile in Italia il PIL aumenterebbe di 7 punti percentuali.
L’aumento dei tassi di occupazione femminili consente ampi margini di crescita economica. La teoria della womenomics vale anche per l’Italia.
STIMA AUMENTO DEL PIL SE L’OCCUPAZIONE FEMMINILE RAGGIUNGESSE QUELLA MASCHILE
(fonte: Womenomics 5.0)
Ad oggi, nonostante la womenomics, in nessun paese del mondo è stata raggiunta l’equità nei livelli partecipazione al lavoro tra donne e uomini e, anche dove l’occupazione femminile è aumentata, restano ampi i divari nelle posizioni manageriali e nelle retribuzioni rispetto agli uomini. Perché?
Ormai è certo che una maggiore qualificazione e istruzione delle donne garantisce maggiori livelli di partecipazione al lavoro, ma i dati ci dicono anche che questo non basta.
L’ILO in un recente studio sullo stato dell’occupazione femminile nel mondo dimostra che il principale ostacolo è costituito dallo squilibrio nella gestione dei carichi di cura. La quantità di lavoro non retribuito svolto dalle donne resta decisamente maggiore di quello degli uomini, anche quando entrambi sono impegnati professionalmente a tempo pieno, e anche quando solo la donna è occupata e l’uomo non lavora!
Nello stesso rapporto si passano in rassegna i dati sulle conseguenze della maternità e dell’impegno di cura per le donne che lavorano. Si scopre che ovunque l’evento nascita del figlio porta le donne ad abbandonare il lavoro. Un fenomeno molto diffuso anche in Europa e che in Italia assume connotazioni “definitive”. Nel nostro paese, infatti, le donne tendono a non rientrare più nel mercato del lavoro. Lo scarto salariale con gli uomini si accentua per le donne che hanno figli e responsabilità di cura e la probabilità di essere manager, di dirigere aziende e organizzazioni si riduce drasticamente. In tutti e tre i casi la situazione è totalmente ribaltata per gli uomini per i quali l’evento “figlio” comporta ovunque un aumento dell’occupazione, un aumento della retribuzione e una maggiore probabilità di carriera.
Che cosa blocca il compimento della rivoluzione nel mercato del lavoro delle donne? Il peso delle attività di cura.
MOTIVI DI DIMISSIONE DAL LAVORO, 2019 – DISTRIBUZIONE MOTIVI RECESSO
(fonte: Ispettorato Nazionale del Lavoro)
Va detto, e questa è una bella notizia, che si registra un po’ ovunque una “timida” tendenza positiva nell’uso del tempo da parte delle nuove generazioni di uomini/padri che spendono significativamente più tempo delle generazioni precedenti nelle attività di cura famigliare e domestica e sono più proiettati verso un vero equilibrio di genere. Nonostante ciò, l’ILO ha stimato che nella migliore delle ipotesi ci vorranno 209 anni prima di arrivare a registrare statisticamente lo stesso tempo speso per lavoro retribuito e non retribuito da parte di donne e uomini. Quindi solo nel 2228 uomini e donne dedicheranno al lavoro e al non lavoro lo stesso tempo!!
La “genderizzazione” nella distribuzione del tempo tra lavoro retribuito e non retribuito chiaramente incide nei livelli partecipazione delle donne al lavoro. Nei paesi che registrano tassi di occupazione femminili più alti il peso delle cure è maggiormente distribuito tra i partner, le donne lavorano di più e sono libere (quasi come gli uomini) di impegnare i loro talenti e gli studi fatti nel lavoro e nella professione; e gli uomini sono liberi (quasi come le donne) di dedicarsi alla crescita e alla cura dei propri figli e della famiglia. L’Italia si posiziona insieme al gruppo di paesi che presentano maggiori divari culturali e economici nella parità di genere.
Esiste una relazione diretta tra maggiore equità nell’uso del tempo tra donne e uomini e livelli occupazionali femminili.
Le donne italiane, infatti, svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini 1 ora e 48 minuti (ISTAT, 2019). Nel nostro paese la popolazione femminile si fa carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura. Tale ritardo in un equilibrio nell’uso del tempo, con molta probabilità, contribuisce non poco alla stagnazione del nostro paese
È arrivato il momento di chiedersi come sostenere una maggiore equità nell’uso del tempo tra donne e uomini. Perché è sulla distribuzione del tempo che sembra giocarsi una maggiore equità di genere, ed è (anche) sull’equità di genere che sembra dipendere la crescita, lo sviluppo e l’innovazione del paese. I ruoli tradizionali dell’uomo responsabile del sostentamento della famiglia e la donna angelo del focolaio domestico oltre ad essere ormai anacronistici, non giovano a nessuno e stanno condizionando il nostro futuro. È necessario investire risorse per supportare le ragazze, le donne e le madri a partecipare di più al lavoro, ma nella stessa misura c’è bisogno di politiche e servizi che sostengano i ragazzi, gli uomini e i padri a partecipare con pari responsabilità, pari dignità e con lo stesso tempo nelle attività di cura dei figli, della casa e della collettività. Proprio perché le bilance vita-lavoro da riequilibrare sono 2 su ambiti opposti: quella delle donne e quella degli uomini. Per poter raggiungere la piena “womenomics” bisogna passare per un “equaltime-nomics”.