Green, smart
di Serena Righini
La pandemia che stiamo vivendo sta accelerando processi di trasformazione che avranno un impatto sul futuro sia del lavoro che delle nostre città.
Se riflettiamo sulla pratica dello smartworking, semisconosciuta fino solo a un anno fa nel nostro Paese, è possibile delineare un processo che, partendo dallo sviluppo tecnologico e digitale sempre più spinto, apre a scenari e a nuove prospettive, sia per quanto riguarda il mondo del lavoro che per gli spazi e le funzioni delle nostre città.
L’essersi resi conto che una buona parte del lavoro può essere svolto da casa ha prodotto lo svuotamento di molti uffici, alcuni dei quali, tipicamente laddove il bilancio tra risparmi aziendali potenziali (meno postazioni vuol dire meno costi sulle bollette e meno spazi da affittare) e livelli di produttività pende a favore dei primi, non verranno più riaperti.
Questo fenomeno avrà ripercussioni su molti aspetti delle nostre vite, private e pubbliche.
Innanzitutto, va evidenziato come l’approccio al remote working segni una faglia tra le grandi imprese e le multinazionali da un lato e il mondo delle piccole e micro imprese dall’altro. Infatti, queste ultime, a causa di dinamiche gestionali caratterizzate da filiere corte e figure professionali multitasking, faticano maggiormente a rendere irreversibile questa modalità.
Inoltre, è oramai urgente pensare a rinnovare diritti e doveri dei lavoratori, dagli orari alle pause pranzo, fino al diritto alla disconnessione, in modo da strutturare e tutelare il rapporto il lavoro.
Lo smartworking, poi, sta mettendo in evidenza molte criticità che già colpivano molte nostre città: la crisi del piccolo commercio nei centri urbani (con valori immobiliari che oggi sono ridotti del 25% rispetto a febbraio), centri direzionali sovradimensionati, sistemi di mobilità congestionati e basati essenzialmente sul trasporto veicolare privato, polarizzazione sociale tra città centrali sempre più ricche e hinterland sempre più poveri (non solo in termini reddituali ma anche per dotazione di funzioni e servizi urbani) sono i principali temi che mettono in crisi i nostri centri, almeno per come ci appaiono oggi.
Le grandi città si stanno attrezzando e, anche a dimostrazione che il livello di governo locale è il più sensibile e reattivo ai cambiamenti, stanno provando a individuare nuove risposte: la strategia della “città dei 15 minuti”, ad esempio, nata con la sindaca parigina, sta interessando l’attività del comune di Milano, con l’obiettivo di aumentare l’accessibilità ai servizi essenziali nel raggio, appunto, di un quarto d’ora. Oppure il forte investimento in piste ciclopedonali, che rappresenta forse l’unica soluzione messa in campo per alleggerire trasporti pubblici il cui (sovra)affollamento non è compatibile con le regole di distanziamento imposte dal virus.
Iniziative lodevoli, ma a cui manca un pensiero nuovo complessivo su un fenomeno che diventa ogni giorno meno temporaneo e che qualcuno accumuna, per portata, a quello che successe qualche decennio fa quando la meccanizzazione più avanzata e la delocalizzazione sfrenata hanno svuotato le grandi fabbriche e generato le grandi aree dismesse, molte delle quali, ancora oggi, attendono progetti di riqualificazione e riconversione.
Serve un nuovo paradigma che ispiri lo sviluppo urbano verso modelli di sostenibilità urbana, ambientale e sociale. Efficientamento energetico del patrimonio immobiliare esistente, limitazione al nuovo consumo di suolo, decarbonizzazione dei mezzi di trasporto e digitalizzazione sono i temi che devono orientare l’elaborazione dei piani per le città del futuro. Iniziamo a parlarne tutti.