Verso un codice di cittadinanza attiva
di Maurizio Del Conte e Tommaso Nannicini
Da qualche tempo a questa parte, con l’approssimarsi del finale della legislatura, nel dibattito politico serpeggia un sentimento contro-riformista. Lo smantellamento di quanto di buono è stato fatto durante gli ultimi governi viene posto a caposaldo di proclami elettorali tanto attenti alla pars destruens quanto poco inclini a soffermarsi sulla pars construens. È un atteggiamento che, a seconda dei contesti, si manifesta con tratti di mero posizionamento politico o di pura rivalsa. E come accade in questi casi, lo sguardo è rivolto al passato, mai al futuro. C’è chi vuole abolire lo Statuto dei lavoratori, chi il Jobs act. È tutto uno sventolare di bandierine ideologiche, senza entrare nel merito dei problemi del Paese.
Emblematico il caso dell’articolo 18 dello Statuto, il cui ripristino sembra raccogliere inaspettati consensi trasversali, tra chi evidentemente è privo di altri vessilli da sventolare. La storia ci insegna – quindici anni fa intorno alla battaglia sui licenziamenti si scatenò un conflitto sociale dagli esiti tragici – che gli apprendisti stregoni del rancore rischiano di scatenare forze incontrollabili, sia nelle urne che fuori.
Nel mondo reale è evidente l’obsolescenza di un sistema di tutele del lavoro tutto incentrato sulla salvaguardia del singolo contratto e la cui capacità di affrontare la perdita di occupazione si è tradizionalmente esaurita nella gestione di una sola transizione: dal lavoro alla pensione. Questa visione non ha più ragion d’essere. Aggrapparci a vecchi totem ideologici – come l’articolo 18 o la separazione ideologica tra scuola e lavoro o, ancora, un sistema previdenziale indifferente ai vincoli della sostenibilità finanziaria e della solidarietà generazionale – non ci aiuterà a rispondere alle sfide di un mondo che cambia in fretta e che impone nuove soluzioni.
Allo stesso tempo, se si vuole guardare alla realtà senza infingimenti, bisogna evitare le ubriacature futuriste che dipingono un mondo del lavoro destinato alla dissoluzione di ogni equilibrio sperimentato finora. Un mondo dove le macchine cancelleranno gli operai e i modelli organizzativi dell’impresa saranno sostituiti da nuove piattaforme ubiquitarie in cui le gerarchie non avranno più cittadinanza. Un mondo dove, per una sorprendente eterogenesi dei fini, la tecnologia ci consegnerà la fine della contrapposizione tra capitale e lavoro. Queste speculazioni avveniristiche, tipiche di ogni fase di grande incertezza, rischiano di distrarre l’attenzione dai problemi concreti del presente, quelli che incontra oggi uno studente che si interroga sulla scelta del percorso formativo, un giovane che cerca lavoro, un disoccupato che il lavoro l’ha perso e deve ritrovarlo perché l’età della pensione si allunga sempre di più.
Se l’obiettivo è quello di dare risposte concrete e immediate ai problemi reali del lavoro, si devono mettere a sistema le riforme varate negli ultimi anni. Con i governi Renzi e Gentiloni sono stati fatti interventi strutturali mai osati prima. Il Jobs act e lo Statuto del lavoro autonomo hanno riscritto le regole del mercato e dei rapporti di lavoro. Si sa che i sistemi sociali impiegano anni per metabolizzare le riforme più incisive, che sono anche le uniche a produrre vero cambiamento. Ma il cambiamento è già percepibile, con buona pace dell’evanescente processo mediatico al Jobs act, incardinato sul vizio italico di valutare le politiche pubbliche sulla base dell’appartenenza a questa o quella parrocchia. Dalla lettura integrata dei dati sul nostro mercato del lavoro, frutto della recente collaborazione tra i principali soggetti pubblici che gestiscono archivi e basi dati in questo campo, sappiamo che le cose finalmente vanno meglio. Il numero di occupati è tornato ai livelli pre-crisi, nonostante il nostro prodotto interno lordo non abbia ancora raggiunto l’agognato traguardo. L’andamento di attivazioni e cessazioni di lavoro dipendente, con un saldo di oltre 900 mila posizioni in più negli ultimi quattro anni e in particolare nello scorso biennio, mostra i segni di una ripresa che, pur non riguardando tutti allo stesso modo e con la stessa intensità, c’è ed è visibile. E questo nonostante le tendenze demografiche e la contrazione degli occupati nel pubblico impiego spingessero in direzione contraria, segno che qualcosa di forte si è mosso nel mercato del lavoro privato.
Le riforme hanno drasticamente ridotto il contenzioso del lavoro e hanno favorito la crescita dimensionale delle imprese. Dopo anni in cui ci si è lamentati di un mercato del lavoro italiano troppo rigido e scarsamente competitivo rispetto ai partner europei, il Jobs act lo ha reso più ordinato, più agile, più efficiente. E tutto questo senza nessuna “macelleria sociale”. Il numero di licenziamenti è rimasto sostanzialmente invariato, con l’introduzione della Naspi si è dato vita a un sistema di ammortizzatori sociali universale, che finalmente non condiziona la propria generosità all’età anagrafica o alla categoria di appartenenza, e sono state poste le basi per un sistema organico di politiche attive del lavoro.
In tema di politiche attive, è chiaro che la bocciatura del referendum costituzionale non è stata a valenza neutra, perché ha finito per ostacolare un cambio di passo nel solco dei migliori modelli europei, come quello tedesco o francese, dove le riforme introdotte all’inizio degli anni duemila hanno permesso la realizzazione di una poderosa macchina amministrativa centrale direttamente responsabile della gestione dei servizi per l’impiego. È auspicabile, quindi, che nella prossima legislatura si porti a regime – questa sì vera pars construens di un programma di governo credibile – il sistema di governance delle politiche attive del lavoro. A partire dal coordinamento nazionale in capo all’Anpal, sarà necessario far sì che ognuno dei protagonisti in campo, dai centri per l’impiego alle agenzie private, dal livello di governo nazionale a quello territoriale, si assuma le proprie responsabilità nel creare un sistema dei servizi per l’impiego che garantisca uguali diritti a tutti i cittadini e su tutto il territorio nazionale.
Il punto focale verso cui dovranno convergere i vari segmenti della rete dei servizi per l’impiego è la persona. Solo mettendo al centro la persona, infatti, è possibile che in un sistema multilivello l’esercizio effettivo del diritto individuale al lavoro non si infranga contro le barriere frapposte tra un livello e l’altro: centro e periferia, pubblico e privato, istruzione e occupazione, e via snocciolando. Tanto più che alla moltiplicazione dei livelli di responsabilità si aggiunge la progressiva evoluzione di quel diritto al lavoro che, fino a poco tempo fa, era inteso come il semplice diritto all’inserimento in un singolo e unico posto, al termine degli studi e poi per tutta la propria vita lavorativa, mentre oggi si esplica sempre più in un contesto multidimensionale e frammentato, dove tendono a susseguirsi interruzioni e ripartenze, linee di frattura e momenti ibridi di studio e lavoro o, viceversa, momenti dove né si studia né si lavora. È proprio questa complessità delle transizioni a richiedere una visione e una gestione unitaria.
La sfida è dunque quella di ricostruire la filiera della carriera lavorativa andando oltre la dimensione del singolo contratto. Questo vuol dire concentrare le azioni sulla persona, come portatrice di diritti non segmentati per fasi di vita, ma che trovano composizione in un percorso continuo e unitario, che includa ogni diverso passaggio: studio, alternanza scuola-lavoro, tirocini curricolari ed extracurricolari, apprendistato, formazione continua, passaggio tra forme di lavoro diverse (dipendente/autonomo, temporaneo/indeterminato, part-time/a tempo pieno), transizione da un posto di lavoro a un altro, mobilità geografica, riqualificazione e cambiamenti di competenze, misure di invecchiamento attivo ed evoluzione delle mansioni, accompagnamento alla pensione. È necessario trasformare questi passaggi in un valore positivo, che si traduca nel rafforzamento della dimensione professionale della persona. Per raggiungere questo obiettivo ogni azione di supporto alle diverse fasi di transizione deve essere disegnata su misura e in coerenza con le esperienze pregresse, maturate durante l’intero percorso educativo e professionale della persona.
Si deve quindi creare uno strumento di identificazione individuale della carriera formativa, professionale e di inclusione sociale, che vada oltre il “fascicolo personale del lavoratore”, rimasto tra l’altro ancora inattuato. Lo Stato riconosce ogni singolo cittadino, fin dalla nascita, assegnandogli un codice fiscale. Occorre finalmente riconoscere che la dimensione identitaria del cittadino non può più esprimersi unicamente nella capacità di contribuire al conto economico dello Stato. Perciò il codice fiscale dovrebbe essere affiancato – e forse un giorno assorbito – da un nuovo codice di cittadinanza attiva, al quale ricondurre ogni attività formativa e lavorativa svolta e, insieme, ogni forma di aiuto all’inclusione sociale.
Il codice di cittadinanza attiva dovrebbe consentire la registrazione di tutte le prestazioni sociali di attivazione erogate all’individuo. Grazie alle informazioni registrate, sarà possibile predisporre misure personalizzate in coerenza con ogni traiettoria individuale. Verrà così garantita la presa in carico permanente della singola persona, garantendo la portabilità: a) della formazione, indipendentemente dalle transizioni da un contratto a un altro o da una forma di lavoro a un’altra; b) delle competenze professionali, acquisite in tutto il percorso di carriera e in qualsiasi luogo, compreso all’estero; c) delle misure per la ricollocazione al lavoro; d) dei servizi di welfare, cumulando e rendendo complementare il welfare pubblico con quello aziendale, contrattuale, integrativo. Uno strumento del genere permetterebbe il monitoraggio continuo dello stato occupazionale dell’individuo, al quale dovrebbe essere destinato un servizio telematico di assistenza personalizzata e continua.
In Francia si sta sperimentando con successo il “conto personale di attivazione”, dove si registrano tutti i momenti formativi della persona. Con il codice di cittadinanza attiva potremmo andare oltre la formazione, estendendolo all’intera gamma delle politiche attive del lavoro e anche a segmenti di welfare, cioè a misure di inclusione sociale. Il lavoro è elemento essenziale della cittadinanza attiva. È questo il presupposto su cui poggia la nostra proposta, in linea con le riflessioni europee sul “pilastro sociale”, la nuova architettura delineata dalla Commissione, incentrata sulla convergenza tra misure di inserimento al lavoro e misure di inclusione sociale.
Checché ne dicano i professionisti del teatrino della politica, il Jobs act non va rottamato, ma accudito e completato. Per questo, in aggiunta all’orizzonte delineato sopra, può essere utile riprendere in mano due elementi lasciati in sospeso al momento della sua approvazione.
Innanzitutto, il divario di costo tra lavoro stabile e temporaneo potrebbe salire ulteriormente. Tagliando strutturalmente il cuneo contributivo del primo. Ma, perché no, alzando il costo del secondo. Per esempio, introducendo una buonuscita compensatoria per i lavoratori temporanei che non vengono stabilizzati. Buonuscita che potrebbe essere incassata direttamente dal lavoratore o erogata sotto forma di un buono formativo per un valore raddoppiato dallo Stato. Questa proposta avrebbe il pregio di aumentare il costo di un utilizzo eccessivo dei contratti temporanei rafforzando allo stesso tempo l’occupabilità di chi attraversa fasi discontinue di impiego. In generale, comunque, sarebbe sempre meglio introdurre cambiamenti di questo tipo in maniera sistematica, al massimo una volta per legislatura, per non creare incertezza modificando le norme giuslavoristiche a ogni stormir di foglia.
Il secondo elemento, contenuto nella legge delega del Jobs act ma non nei suoi decreti attuativi, riguarda l’introduzione di un salario minimo legale che intervenga laddove manchi la copertura del contratto collettivo. È vero, infatti, che il nostro sistema è andato avanti benissimo per molti decenni senza alcuna indicazione di legge in materia salariale. Il sistema italiano era caratterizzato da una capillare diffusione dei minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali. Ma, in pochi anni, abbiamo assistito a una profonda trasformazione del sistema produttivo, con una conseguente trasformazione della struttura della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva. Da un lato si assiste a una proliferazione di contratti “pirata” siglati da sindacati privi di effettiva rappresentatività, dall’altro c’è un problema sempre più diffuso di scopertura contrattuale per larghe fasce di lavoratori, che si trovano a lavorare in condizioni economiche degradanti. Da qui la questione del salario minimo legale, che dovrebbe essere accompagnato da un sistema di certificazione della rappresentanza sindacale.
Tutte le nostre proposte mirano a completare il percorso avviato col Jobs act. A fronte degli andamenti positivi del mercato del lavoro, qualsiasi contro-riforma sarebbe difficile da spiegare. E continuare a cambiare le norme sui contratti di lavoro a ogni mutamento del clima politico ridurrebbe gli investimenti e la credibilità del Paese. È anche per questo che, di fronte all’enormità delle sfide che ci attendono, non ha alcun senso tornare a lacerarsi sulla disciplina dei licenziamenti individuali. Il contenzioso giudiziario legato ai licenziamenti è crollato negli ultimi anni. Il problema è la quantità e, soprattutto, la qualità dei posti di lavoro. È per questo che dobbiamo accelerare il percorso verso un sistema integrato di prestazioni sociali e servizi alla persona. Per costruire davvero il lavoro di cittadinanza.